Alla ricerca dei Food Heroes
Dopo lo storico dell'arte tedesco Roland Guenter, Salvatore Giannella intervista Claudia Laricchia, 44 anni, Climate leader e direttrice del Future Food Institute.
Cara Claudia, sto incontrando vari maestri dello sviluppo sostenibile per rendere meno evanescente quel mitico traguardo grazie a esempi concreti e consigli utili. Ti ho conosciuto in passato (da qui il più familiare “tu”) e per i lettori fornisco qualche essenziale tuo dato biografico. Nata a Foggia 44 anni fa. Laureata in economia politica a Siena. Folgorata dall'incontro con Obama all'Expo di Milano (“Mi ha cambiato la vita quando mi disse: il cambiamento climatico è alla fine della tua forchetta”). Dirige il Dipartimento relazioni istituzionali e Accordi internazionali del Future Food Institute. Climate shaper (cioè attivista per il clima e l'alimentazione) e Climate leader per The Climate Reality Project di Al Gore (ex vicepresidente degli Stati Uniti e premio Nobel per la Pace). Hai fatto due volte il giro del mondo per incontrare i Food Heroes, qualifica con cui la FAO indica i protagonisti di azioni positive di cambiamento e per formare giovanissimi agenti della Green Economy mondiale. Un'esperienza che ti ha meritato il premio di “Lampadiere dell'ambiente”, figura di impatto per nuovi progetti concreti di sostenibilità, dall'Associazione Gambrinus Mazzotti a Treviso. Quali sono le principali esperienze concrete che ti hanno colpito e che possono essere emulabili? Guidaci in un Grand Tour della sostenibilità.
Noi del Future Food Institute siamo convinti che sarà la sostenibilità a darci l'energia per ripartire e per questo ci siamo messi all'opera con l'obiettivo di formare figure professionali e squadre multidisciplinari in grado di agire in fretta per mitigare la crisi climatica e per cambiare abitudini e modelli economici, comportamentali e sociali entro il 2030 (la decade of action per raggiungere i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile dell'Agenda 2030 dell'ONU). Fai attenzione: ho usato il verbo agire, non parlare. I nostri incontri, i nostri libri riguardano azioni nei settori dell'innovazione alimentare, delle proteine del futuro, dell'economia circolare, del domani delle città (si stima che entro il 2050 il 70% della crescente popolazione mondiale si concentrerà nelle aree urbane, che diventeranno il principale centro di produzione e consumo della nostra società). All'interno di queste voci troviamo alcune delle storie più interessanti e trasferibili. Penso per esempio all'incredibile esperienza di Stephen Ritz, insegnante di scienze che pratica il vertical farming nel Bronx di New York, il distretto più povero e con la più grande comunità di immigrati degli Stati Uniti.
Ho sentito parlare di questo docente diventato icona della sostenibilità e del riscatto sociale. La sua è una storia esemplare per molti aspetti. Riassumiamola.
Stephen ha creato un'organizzazione non-profit (lui si autodefinisce CEO, Chief Eternal Optimist) che contribuisce alla creazione di comunità eque e resilienti attraverso l'agricoltura, il cibo sano e la promozione di stili di vita sostenibili. Coniuga sapientemente due “molecole”: la tecnologia brevettata (che permette di far crescere ortaggi e piante in aule recuperate della scuola ma anche sui muri e sui tetti, risparmiando il 95% dell'acqua rispetto alle coltivazioni in campo) e l'educazione dei bambini che saranno gli agricoltori del futuro. Ha così riqualificato una disagiata area metropolitana con orti urbani e oasi verdi in mezzo al cemento. Tutti i suoi studenti si diplomano con successo, vanno al college o intraprendono una carriera lavorativa. Risultato eccezionale se comparato con le medie del duro distretto del Bronx, con bassi tassi di rendimento scolastico, alta disoccupazione e criminalità.
Dal 2014 Ritz e i suoi studenti hanno sviluppato il programma didattico Green Bronx Machine che permette di coltivare facilmente prodotti di altissima qualità all'interno della scuola. I ragazzi (divisi non in squadre di calcio o di basket ma in gruppetti di vegetali preferiti come broccoli, carote, zucchine o menta) si occupano in prima persona di tutto il processo: dalla semina alla raccolta. Ciò che viene prodotto viene consumato a scuola o portato a casa. Questo permette di imparare la storia, la geografia e la biologia delle piante (ciò che viene coltivato diventa il protagonista di un racconto, stimolando l'attenzione e la curiosità dei piccoli) e di coinvolgere nel progetto anche i genitori che imparano a scegliere alimenti sani e a cucinarli insieme ai figli. In una comunità con alti tassi di obesità infantile, diabete, malattie cardiache e insicurezza alimentare, Green Bronx Machine porta avanti l'invito di Ritz (“tirarsi su le maniche, sporcarsi le mani e crescere qualcosa di straordinario”) e la sua idea che da studenti sani nascono comunità sane.
Così, quello che era nato inizialmente come un doposcuola alternativo, è fiorito in un modello integrato di educazione giovanile.
Ritz e i suoi studenti, oggi più di 3.000, sono stati capaci di creare cento giardini nel cuore di New York. Hanno ricevuto tanti premi e viaggiato per tutto il Paese. Sono stati visitati dal sindaco e da rappresentanti del Congresso, sono stati invitati anche alla Casa Bianca dove hanno conosciuto uno degli chef del presidente, Bill Yosses, che ha voluto portare la sua esperienza nelle scuole unendosi al team di Ritz. Da quando è iniziato il Progetto, il tasso di frequenza scolastica è passato dal 40% al 93%, portando a un miglioramento della partecipazione e della condotta degli studenti. Solo nel primo anno si è verificato un aumento del 45% nelle percentuali di superamento degli esami di scienze all'interno della scuola: a oggi il test statale viene superato dal 100% degli studenti. E le scuole che utilizzano il programma di Ritz sono più di 6.000 in tutto il mondo.
Ritz e il suo metodo sono conosciuti anche in Italia. La Fondazione Golinelli e il Comune di Bologna un anno fa lo hanno intervistato per il ciclo Good for Food, che ha vinto il premio per una Pubblica amministrazione sostenibile e solidale. Con l'invito a privilegiare cibi locali e di stagione, a basso impatto energetico, trasportato con sistema di mobilità green: perché si fanno grandi passi avanti con il risparmio energetico in cucine di nuova generazione, con tecnologie amiche e fortemente risparmiose, ma se poi bisogna far arrivare il cibo da altri continenti, con un'impronta energetica pesante, si rischia di annullare i vantaggi raggiunti con le cucine digitalmente intelligenti.
Certo, lo sguardo sostenibile va dato a tutta la filiera alimentare, dall'acqua al prodotto, dal packaging al trasporto. Insomma, vanno cancellate quelle disfunzioni che permettono al ciclo dell'alimentazione di contribuire al 30% delle emissioni di gas serra. Il particolare da sottolineare è che, come in gran parte dei settori che riguardano la sostenibilità, le soluzioni da dare ai problemi ci sono già e sono universalmente accettati. Gli scienziati si affannano a confermare dati per la transizione ecologica. Idealmente io dovrei essere dalla parte degli scienziati, però avverto un allarme: che il volume delle parole è tale che assume quasi un rilievo inquinante. Mi spiego meglio: da anni questo scenario delineato dal mondo scientifico è ben illuminato da dati importanti e condivisi. L'imperativo ora è di agire e in fretta, e non continuare a ripetersi le stesse cose. Arrivo a dire che certe volte le parole sono la fonte fossile più pericolosa e che ci fanno perdere tempo prezioso.
Nuova tappa: ci spostiamo in Europa. Per esempio, ho sentito parlare di scienziati olandesi che hanno creato il primo tipo di carne artificiale, senza la necessità di allevare e macellare il bestiame. Che ne pensi?
È l'hamburger da laboratorio creato dal professor Mark Post. La carne in vitro è stata prodotta a partire da cellule staminali di suini, alimentate con siero proveniente dai feti dei cavalli. I risultati sono sottili striscioline di carne artificiale dalla consistenza molliccia e dal colore pallido per l'assenza di sangue. Post e il suo team stanno lavorando per dargli un po' di colore. L'aspetto non è l'unico dettaglio ancora da sistemare perché la produzione di questa carne in vitro avrebbe un costo esorbitante: 200 mila euro per un hamburger. Ovviamente bisogna renderlo più accessibile ma credo che su questo fronte ci saranno presto novità interessanti: pensa che l'attore Leonardo Di Caprio, da sempre impegnato nella causa ambientalista, ha scelto di investire in un'azienda che produce la carne che sa di carne ma è completamente prodotta dalle piante. E anche in Italia si è arrivati a distribuire carne vegetale nella terra dei tortellini: è partito da Bologna il viaggio gastronomico di hamburger plant based da parte dei ristoranti Well Done di Andrea Mangelli, co-fondatore di Future Food.
Dopo America ed Europa, passiamo in Africa e in Asia.
In Africa non ci sono ancora andata, sarà la prossima mèta. In Asia, invece, la storia più intrigante l'ho incontrata in Giappone. Lì un'azienda ha brevettato un metodo che permette di risparmiare due delle risorse più preziose: acqua e terreno. Il metodo è stato messo a punto dal professor Yuichi Mori e prevede la coltivazione di piante in ambienti chiusi a temperatura e luce controllate, usando un idrogel costituito da un film polimerico. Grazie a questo idrogel è possibile far crescere i vegetali risparmiando il 90% di acqua. Non solo: il gel protegge anche le piante dall'attacco di agenti esterni, rendendo superfluo l'impiego di pesticidi. Date le sue caratteristiche, il metodo può essere applicato nelle zone aride della Terra o dove il degrado ambientale e l'inquinamento non consentono più di utilizzare i terreni. Attualmente è stato già adottato per ricostruire aree agricole inquinate nel nord-est del Giappone e nel deserto degli Emirati Arabi.
Hai assaggiato qualcuno di questi prodotti?
Sì, ho in mente un'ottima insalata di pomodori. Più dolci di quelli che ho mangiato da ragazza nel mio Tavoliere pugliese e leggermente più piccoli, tipo i pomodori di Pachino. Però erano molto buoni, hanno anche vinto un premio nel 2019 di UNIDO ITPO Italy in collaborazione con il Future Food e sono venuti a ritirarlo a Roma, a Exco2019.
Hai introdotto l'Italia. È l'ultima tappa del nostro Grand Tour.
Noi italiani su questo fronte siamo mal messi. Paghiamo il prezzo dell'equivoco della leadership milanese post Expo. La food innovation è rimasta di facciata, per dirla con il titolo del film Sotto il vestito niente. Ritengo questa un'occasione persa. Il secondo equivoco è quello delle start up: tutto il circo delle start up si è limitato a un'operazione di marketing più che di reale open innovation, spesso sulla pelle dei sogni dei giovani. Guardiamo i numeri: quante start up sono state registrate in Italia? E quante di queste sono dedicate alla food innovation? E quanti eventi vedono coinvolte le start up? Paradossalmente sono più quelli che vogliono promuovere le start up di quelli che le fanno. In Italia la food innovation appare ancora un bluff. Questo è il mio punto di vista, anche se so di attirarmi critiche. Ma mi piacerebbe essere contraddetta con i numeri e allora sarei pronta a cambiare idea.
Eppure, qualche segno di vitalità l'ho colto in un recente seminario sull'acqua dolce che ho coordinato a Treviso. Anche se un imprenditore friulano, creativo ed ecologista ante litteram, ha gettato un allarme sulla transizione ecologica: in sostanza ha ricordato che il sistema economico è come un binario ferroviario sul quale corre il treno della nostra economia, della nostra società. Ma chi dà una nuova direzione ai binari? Ritieni che il suo sia un pessimismo fondato?
Per non essere del tutto pessimista ti racconto una storia di cui sono innamorata. È quella di Giorgia Pontetti, classe 1977, vulcanica ingegnere aerospaziale, che nella sua azienda nel Lazio progetta e brevetta le macchine di dopodomani, dalla stampante 3D per cibi salutari che possa funzionare con inchiostro alimentare, alle serre idroponiche sterili. Lei punta a realizzare prodotti con alto valore nutritivo per un uso non solo industriale, ma anche casalingo o privato, da posizionare nelle scuole e negli uffici al posto dei classici distributori automatici. E per uscire dal tunnel nero del pessimismo, ti indico dove trovare la luce salvifica: nella formazione. Senza le competenze che tu acquisisci con la formazione tu non cambierai mai niente. Se tu non sei formato, come fai a capire quali sono i materiali nuovi da usare? Qual è la direzione da intraprendere? Qual è il piano che devi fare? Quanto costa comprare questa innovazione? Da chi comprare? Se tu non sei formato, a quegli evocati binari della transizione ecologica tu non darai mai una nuova direzione. Quindi la chiave vera, decisiva in Italia è la formazione.
Se ne parla poco, ma questo è il capitolo di cruciale importanza.
Il mondo, e te ne parlo con esperienza personale, pullula di migliaia di organizzazioni che si occupano di sensibilizzare l'opinione pubblica sul cambiamento climatico, che si adoperano affinché cresca la consapevolezza dell'importanza del clima… Però tutto questo era necessario saperlo tanti anni fa. Tu stesso parlavi di Green New Deal per l'Italia su Airone che dirigevi quarant'anni fa. In passato quelle informazioni erano importanti, oltre il visionario. Ma nel 2022 il re è nudo. Io, da socia attivista di molti organismi ambientali, dico spesso ai miei compagni: “Ragazzi, va bene la sensibilizzazione, però i tempi sono cambiati. La priorità non è più questa. La gente già sa di questa svolta necessaria, l'ha capita. Dopo l'urlo di Greta Thunberg anche mia nonna l'ha capito. L'abbiamo capito tutti a tutti i livelli. Magari non agiamo con l'urgenza che questa consapevolezza richiede, ma noi ormai lo sappiamo”. Ecco perché la formazione è propedeutica all'azione. È questa che manca. Tu formami sulla carbon compensation, formami sulla finanza sostenibile, formami sulla rigenerazione dell'agricoltura, sulle certificazioni ambientali, sulla riconversione energetica… Ma oggi chi lo fa? Se non ci sono questi cambiamenti, i binari del treno economico manterranno sempre la vecchia direzione.
Questa della formazione mi fa affiorare il ricordo di un borgo sulla costiera tirrenica che so essere nel tuo cuore: Pollica, nel Cilento salernitano, culla della Dieta mediterranea, dove i ragazzi escono da scuola e incontrano pescatori, contadini, allevatori…
Il campus di Pollica, ideato e realizzato da Sara Roversi (presidente del Future Food Institute) è anch'esso un modello replicabile che, nei valori e nei contenuti, corrisponde ai sogni di Angelo Vassallo, il sindaco-pescatore ucciso nel 2010 in un agguato di matrice camorristica, ed è stato adottato dall'erede di Vassallo, l'attuale primo cittadino Stefano Pisani. Con questo metodo, che unisce saggezza teorica ed esperienza con azioni pratiche e nella cornice della legalità, abbiamo formato centinaia di manager di società piccole e grandi ma anche oltre 300 ragazzi e ragazze climate shapers come Ruggiero Potito, co-autore di un libro di successo (Vi teniamo d'occhio. Il futuro sostenibile spiegato bene, Baldini + Castoldi). I giovani di Pollica possono diventare l'avanguardia di un modello formativo da trapiantare altrove. Perché gioiamo per l'ecologia entrata nella Costituzione, ma dobbiamo anche imporci cambiamenti nei gesti di ogni giorno. Pensa allo spreco alimentare: ogni anno nell'Unione Europea il 20% circa del cibo prodotto viene sprecato o perso, e in Italia si buttano 1.866.000 tonnellate di cibo (fonte: Waste Watcher International).
Chi volesse replicare altrove questa esperienza a chi dovrebbe rivolgersi?
A una geniale imprenditrice-filantropa alla quale devo la mia piattaforma delle idee: Sara Roversi, 40 anni, bolognese, presidente di Future Food Institute (che ha sedi a Bologna, Tokyo, Silicon Valley e Pollica). È lei che, a partire dal 2014, ha modellato questo metodo, peraltro già seminato sulla costa tirrenica dall'antica scuola eleatica di Parmenide e di Zenone, l'ha aggiornato e adattato nei vari territori dove viene esportato. Questo modo di operare, realizzato con il professor Matteo Vignoli, è rafforzato anche grazie all'applicazione del metodo del design thinking, molto utile per disegnare, trasformare, cucire addosso ai fabbisogni delle persone in maniera sartoriale: Sara e Matteo, con idee come il Giro del Mondo in 60 giorni, e con il master internazionale Food Innovation Program, stanno ispirando e formando una nuova generazione di imprenditori, manager e giovani innovatori nella filiera agroalimentare e fanno dell'innovazione alimentare la bandiera di una evoluzione verso la sostenibilità.
E verso una felicità diffusa, senza doverci ridurre all'ascetismo di massa, in una prospettiva ecologista matura ed equilibrata, lontana da ottimismi entusiastici e da pessimismi catastrofisti. Come auspicavo, ricordando l'IF di Kipling, nel mio SE, a un ragazzo che sarà uomo nel Duemila (Airone, agosto 1989) e come ci ricorda Stefano Bartolini, economista dell'università di Siena, nel suo libro Ecologia della felicità (Aboca).
Esatto. Avendo al centro la scuola, i giovani, le donne, decisive per la transizione per la loro natura e cultura. Dire donna è dire cura. Noi siamo vocate alla cura di sé, degli altri e della Madre Terra.
Questa intervista fa parte di una serie che confluirà nel nuovo libro di Salvatore Giannella (scrittore, giornalista ed ex direttore de L'Europeo e Airone) in collaborazione con Valcucine, in uscita nel 2022.
Photo credit cover: Pawel Czerwinski
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